La pace di Viterbo
Il trattato di «pace e concordia» dell'aprile 1215 non contentò nessuna delle due parti. Bologna vedeva infatti confermata la presenza di Pistoia sul versante settentrionale dell'Appennino, fino alla punta avanzata di Moscacchia. Pistoia, da parte sua, doveva rinunziare ad una larga fascia di territorio, sulla quale aveva in precedenza esteso la sua influenza, con gli importanti castelli di Stagno, Bargi e Granaglione. Il trattato probabilmente non fu mai ratificato, così che in queste vallate si prolungò per qualche anno ancora una situazione di armistizio, ma non di pace.
Una prima patente violazione degli accordi si verificò appena tre giorni dopo la firma. Il 29 aprile 1215, infatti, Ubertino di Stagno donava al comune di Pistoia tutti i suoi diritti su Granaglione, Castiglione e Succida, e «nei castelli, nei villaggi e negli uomini dell'intero plebato di Succida». Questa donazione contravveniva in modo evidente alla rinunzia sulle terre del dominio di Stagno, che Pistoia aveva sottoscritto tre giorni prima. Seguiva poi un altro patto, per il quale Ubertino, in contrasto con lo status di neutralità a lui imposto dal trattato, s'impegnava ad aiutare Pistoia «con tutti i suoi uomini armati, contro qualsiasi nemico, salva in ogni caso la fedeltà che lo stesso Ugolino aveva giurato all'imperatore ed all'impero».
E' interessante notare che nello stesso atto, Ubertino dichiarava che a fronte della sua donazione aveva ricevuto dal comune di Pistoia un «laune-child». Si trattava in sostanza di un oggetto che, indipendentemente dal valore intrinseco, rappresentava il corrispettivo del bene donato e trasformava la donazione in una sorta di baratto, secondo il primordiale diritto longobardo. Anche questo particolare conferma che la famiglia dei signori di Stagno non solo era di antica stirpe longobarda, ma - a distanza di cinque secoli dalla fine del regno di Pavia - ne aveva ancora coscienza, tanto da seguirne le più antiche tradizioni.
La situazione dei territori di confine tra Bologna e Pistoia rimase così pericolosamente incerta per altri quattro anni, fino a che la Santa Sede incaricò il cardinale Ugo, vescovo di Ostia e Velletri, di stabilire le condizioni per una pace definitiva. Nel maggio del 1219 il podestà di Bologna s'impegnò con solenne giuramento, prestato alla presenza dello stesso cardinale Ugo, ad accettare e rispettare le future decisioni del legato pontificio. Questa volta però, per impegnare senza riserve l'intera comunità, tutti i cittadini di Bologna furono chiamati a giurare l'impegno di pace. Rimangono ancora negli archivi di Pistoia diciassette verbali notarili con il lungo elenco dei bolognesi che avevano prestato il giuramento. Nello stesso periodo anche a Pistoia furono prestati analoghi giuramenti da parte dei magistrati e dei cittadini, ed i relativi verbali furono inviati a Bologna, dove sono ancora conservati.
Con queste garanzie l'istruttoria del cardinale Ugo si svolse abbastanza rapidamente, tanto che il testo finale della sentenza arbitrale fu reso pubblico il 16 ottobre dello stesso anno, nella chiesa di San Lorenzo di Viterbo. Al primo posto il cardinale, riparando ad una omissione forse voluta del trattato del 1215, stabiliva che la Sambuca «sia lasciata liberamente al vescovo ed alla Chiesa pistoiese, così che possano pacificamente possederla, come già era stato stabilito dai privilegi papali». A Pistoia veniva definitivamente riconosciuta la giurisdizione su Fossato, Treppio, Torri e Monticelli «salvi i diritti della Chiesa romana e dell'impero e salva pure la giurisdizione spirituale della Chiesa bolognese». Rispetto al trattato precedente i confini di Pistoia venivano così ulteriormente arretrati, essendo rimasti a Bologna i villaggi di Moscacchia e di Badi. Anche la situazione degli abitanti della Sambuca, che durante la guerra si erano divisi tra Bologna e Pistoia, fu presa in esame e risolta dal cardinale. Fu infatti ordinato che «Pistoia restituisca tutti i beni agli uomini della Sambuca che durante la guerra se ne erano allontanati, e ne permetta loro il pacifico possesso, salvi i diritti signorili».
Due mesi dopo, il 6 dicembre 1219, si incontrarono a Moscacchia il conte Enrico, podestà di Bologna, ed Orlandino da Porcari, podestà di Pistoia, entrambi accompagnati da dignitari e da molti nobili di entrambe le città. In quell'occasione fu solennemente accettata e ratificata la sentenza del cardinale Ugo; mentre il podestà di Pistoia aggiunse anche l'impegno di rispettare tutti i diritti del vescovo. Con questa formale ratifica si concluse la lunga e cruenta vertenza tra Pistoia e Bologna. I confini stabiliti dal legato pontificio non furono più messi in discussione, tanto che anche oggi, dopo quasi Otto secoli, dividono i territori delle due provincie.
Anche se i Bolognesi avevano questa volta accettato senza riserve la pace di Viterbo, ai Pistoiesi furono mosse due nuove contestazioni negli anni immediatamente successivi, la prima delle quali da parte di Pietro, pievano di Succida. Questi aveva sollevato la questione dei danni che la guerra aveva arrecato alle chiese ed ai beni del suo plebato: Gaggio, Granaglione, Sambuca, Capugnano, richiedendone il risarcimento al comune di Pistoia. Lungo era l'elenco dei danni lamentati dal pievano che nel suo memoriale aveva rievocato i fatti della passata guerra, durante la quale «i Pistoiesi, avendo invaso ed occupato castelli e villaggi, la terra di Succida, il castello di Sambuca ed i villaggi di Pavana, Miracula, Borromia, avevano depredato il pievano ed i beni della pieve, incendiando e distruggendo case, rubando i prodotti del suolo, guastando ed incendiando vigne e castagneti». Segue poi il lunghissimo, minuzioso elenco dei beni e degli oggetti rubati o distrutti, ciascuno con il suo valore: cavalli, asini e finimenti, indumenti personali, arredi sacri, prodotti ed attrezzi agricoli. Inoltre avevano subito gravi danni i parrocchiani, i coloni ed i vassalli della pieve, e lo stesso pievano era stato catturato e messo in carcere. La soluzione della vertenza fu rimessa all'arbitrato di Struffaldo, canonico pistoiese, giudice forse non del tutto imparziale, il quale sentenziò che il comune non era tenuto a soddisfare le richieste del pievano, ma che «pro bono pacis et concordia» avrebbe dovuto dare al detto Pietro la somma di lire 155 di denari pisani.
La seconda questione che investì Pistoia dopo la pace di Viterbo fu assai più seria. La curia pontificia, infatti, in forza della clausola contenuta nella sentenza del cardinale Ugo («salvi i diritti della Chiesa romana»), ordinò al comune di Pistoia di cedere Fossato, Torri e Monticelli, sostenendo che quelle terre erano state della contessa Matilde, la cui eredità era passata alla Chiesa romana, come aveva riconosciuto lo stesso imperatore Federico II. La richiesta fu avallata anche dai conti Alberti di Mangona, cui la Chiesa romana aveva concesso in feudo quei castelli, e che già nel secolo precedente si erano scontrati con Pistoia per la giurisdizione su queste terre. Non risulta che i magistrati pistoiesi abbiano risposto a questa ingiunzione. Il comune, specialmente dopo la guerra con Bologna, era consapevole di aver acquistato una notevole potenza, per cui non sarebbe stato disposto a cedere territori conquistati e difesi con le armi, neppure su intimidazione del pontefice. In effetti di questa pretesa della Chiesa romana non si hanno successive notizie e Pistoia mantenne questi territori entro i confini del suo districtus.