La guerra con Bologna

Ultima modifica 7 maggio 2021

Agli inizi del XlII secolo, Pistoia aveva ormai posto sotto la sua influenza l'intero bacino delle tre Limentre, dalla Sambuca fino a Stagno e Bargi. Gli attacchi armati dei Guidi, alleati di Firenze e di Bologna, dei quali abbiamo notizia nel 1204, non avevano modificato la situazione. Anzi tre anni più tardi un lodo arbitrale aveva concluso la vertenza tra i conti Guidi ed il comune di Pistoia per cui le ostilità cessarono del tutto.

La presenza di Pistoia in questi territori era vista con crescente ostilità da Bologna, che avrebbe voluto riportare il confine del suo districtus alla linea naturale del crinale appenninico. Dopo l'inutile tentativo di alleanza con i Guidi, i consoli bolognesi ritennero giunto il momento di intervenire direttamente con le armi per fermare una volta per sempre il pericoloso espansionismo del comune di Pistoia. Le ostilità ebbero inizio nell'agosto del 1211, con l'avanzata dell'esercito di Bologna nelle valli della Limentra. Secondo le testimonianze degli annalisti bolognesi, nello scontro frontale le forze pistoiesi ebbero la meglio, tanto che poterono discendere ulteriormente lungo la valle del Reno, occupando Granaglione, Castiglione, Porretta, Casole e Gaggio.

Di questo primo episodio della guerra non vi sono riscontri documentari negli archivi pistoiesi, ad eccezione del giuramento che dovettero prestare i consoli di Granaglione e Castiglione. Nei primi giorni di settembre del 1211, e quindi poco dopo lo scontro armato dell'agosto, i consoli Pelato ed Accolto, insieme a 64 uomini di Granaglione dovettero presentarsi a Pistoia, nel palazzo del comune, dove giurarono fedeltà al podestà ed ai consoli pistoiesi, impegnandosi «a difendere il castello e la terra di Granaglione nell'interesse e per l'onore della città di Pistoia; ... a far pace e guerra secondo la volontà di Pistoia», garantendo di «non aver alcun segreto impegno con il podestà di Bologna». Analogo giuramento prestarono i consoli di Castiglione di Succida. Benché in questi due documenti non se ne faccia cenno, si sa per altra via che i due castelli erano stati distrutti dai pistoiesi; infatti in un verbale di giuramento prestato davanti al vescovo Soffredo dal rappresentante della canonica di San Zenone c'è l'esplicito impegno di non fornire «aiuti o consigli per la ricostruzione dei castelli di Castiglione e Granaglione».

L'occasione della guerra aveva riacceso negli abitanti della Sambuca quell'atteggiamento filobolognese che già nel 1127 aveva portato ad una vera e propria congiura, stroncata da Pistoia con le anni. Fu così che una parte dei Sambucani, tra il 1211 ed il 1212, abbandonò il castello, passando armi e bagagli al nemico. L'episodio fu giudicato molto grave e pericoloso dai magistrati pistoiesi, tanto che nel luglio 1212 essi convocarono in città gli uomini della Sambuca «e della sua curia», imponendo loro di prestare un nuovo giuramento di fedeltà e di obbedienza al podestà di Pistoia, «con l'impegno di difendere la Sambuca e tutte le sue fortilicazioni, ... di ritenere come propri i nemici di Pistoia, ... di partecipare attivamente alla guerra contro Bologna» ed infine «di catturare e consegnare al podestà di Pistoia tutti quelli che erano usciti dal castello e passati nelle file dei Bolognesi». E' significativo che in questa particolare contingenza, segnata dai pericoli della guerra in corso, i magistrati pistoiesi non si siano preoccupati neppure di salvare le forme, tanto che nel documento manca il pur minimo cenno ai diritti del vescovo.

Il giuramento fu prestato nel palazzo del comune di Pistoia, da ventidue uomini della Sambuca e della sua «curia», elencati dal notaro senza una particolare qualifica, ma quasi certamente rappresentanti dell'intera comunità. Alla stessa solenne cerimonia erano presenti altri 53 Sambucani, i quali si limitarono a giurare «di non aver mai congiurato o fatto alcunché per consegnare il castello ai Bolognesi». E interessante notare, per inciso, che a questa data la Sambuca non aveva ancora organizzato la sua comunità in modo istituzionale, con la nomina dei consoli, già documentati invece, come si è visto, per Granaglione e Castiglione. Evidentemente la sottomissione al signore feudale e la pesante protezione del comune pistoiese non avevano ancora permesso la benché minima forma di autonomia.

Nella stessa estate del 1212 un nuovo esercito bolognese, con aiuti ricevuti da Reggio e da Faenza, avanzò nelle valli della Limentra. Non sembra però che vi sia stato un altro scontro; anzi è più probabile che le due forze in campo si siano limitate a fronteggarsi, dato che era già in atto un tentativo di soluzione diplomatica della crisi. Infatti il 7 settembre il podestà di Pistoia e quello di Bologna, ciascuno nel proprio accampamento militare, confermarono a Lotario, arcivescovo di Pisa, l'incarico arbitrale per definire ogni controversia esistente tra le due città. Quattro giorni più tardi, in località Bresceola, vicino alla Sambuca, Lotario ordinò al podestà di Pistoia di restituire i prigionieri bolognesi (non sembra che vi fossero prigionieri pistoiesi dall'altra parte) e nello stesso giorno fu sottoscritta una tregua fino all'ottava di San Michele (29 sertembre). A tutti questi atti era presente, e quindi consenziente, il vescovo di Pistoia, Soffredo.

La procedura arbitrale si prolungò ben oltre il termine previsto, sia per la complessità della vertenza, sia per una sorta di resistenza passiva dei Bolognesi che arrivarono a non riconoscere l'arcivescovo Lotario come legittimo arbitro. Passarono così altri tre anni prima che si arrivasse alla pace. Nel frattempo era sorto un grave contrasto tra il vescovo ed il comune di Pistoia per la giurisdizione su altri feudi vescovili, tanto che Soffredo aveva scomunicato i consoli cittadini. In questa nuova vertenza, sollevata dal vescovo a difesa dei propri diritti feudali contro la progressiva invadenza del comune, furono coinvolti tutti gli antichi feudi, Lamporecchio, Orbignano, Montemagno, Batoni, ma rimase escluso quello della Sambuca, per il quale Soffredo si rendeva ben conto di non poter fare a meno dell'appoggio, anche armato, del comune.

Finalmente il 26 aprile del 1215, presso la pieve di Casio, i plenipotenziari dei due comuni firmarono il trattato di «pace e concordia», per il quale veniva riconosciuta la giurisdizione di Pistoia su Moscacchia, Badi, Treppio, Fossato, Torri e Monticelli. Ad Ubertino di Stagno e consorti, «partigiani pistoiesi», veniva tolto il bando dei Bolognesi e restituito ogni possesso, a condizione che gli stessi mantenessero una sorta di neutralità e non costruissero nuovi castelli o facessero altre fortificazioni nelle terre soggette a Stagno, ed in particolare a Succida ed a Granaglione. Ai Bolognesi era proibito di innalzare nuovi castelli da Gaggio fino a Sambuca e da Casio a Torri; analogo divieto era per i Pistoiesi dalla Collina fino a Moscacchia. I Pistoiesi dovevano rinunziare espressamente alle altre terre del dominio di Stagno, sulle quali sostenevano di avere dei diritti, salvi in ogni caso quelli della canonica di San Zenone.